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  • Amanda Lava

Videogiochi e violenza: c’è davvero un collegamento?

Aggiornamento: 9 mag 2021


Un tema che spesso è stato affrontato negli ultimi anni - e che ancora oggi non smette di far discutere - è la questione della violenza nei videogiochi: ci si chiede cioè se l’utilizzo dei videogiochi possa far sorgere nel giocatore un’aggressività che altrimenti non avrebbe sviluppato.


Al tema è stata data un’importanza cruciale anche nel recente passato: e questo è facilmente comprensibile se ci soffermiamo su due questioni ben precise. La prima riguarda le statistiche: la stima di giocatori nel mondo è altissima, circa 2,3 miliardi. Prendendo in considerazione solo gli Stati Uniti, poi, uno studio dimostra che circa il 90% dei bambini americani gioca ai videogames, mentre questa percentuale sale a 97% nel caso degli adolescenti.

 

Se ne potrebbero citare molti altri, ma il videogioco che è stato più accusato di violenza è sicuramente Grand Theft Auto:

 

C’è da dire, però, che oggi esistono delle tutele per i minori. Ad esempio, nell’Unione Europea il codice PEGI (Pan European Game Information) permette ai genitori di evitare di non proporre ai figli contenuti inappropriati per la loro età.


La seconda questione da considerare riguarda episodi di criminalità che si sono verificati soprattutto negli ambienti scolastici: basta pensare a casi come il massacro di Columbine nel ‘99 o quello più recente di Handy Cook. Avvenimenti come questi hanno portato a ritenere che le abitudini di gioco dei giovanissimi killer fossero il motivo principale che li ha spinti ad agire così crudelmente.


Del resto, di videogiochi che presentano elementi violenti potremmo stilare un elenco infinito. Già nel ‘92, ad esempio, Mortal Kombat si è conquistato la fama di gioco violento: la dinamica di gioco faceva sì che dal corpo del giocatore fuoriuscisse un’enorme quantità di sangue. E poi le fatality permettevano di infliggere all’avversario il colpo finale in modo altrettanto violento.



L’anno successivo uscì Doom, diventato popolare- se non il più popolare- negli anni ‘90 per la grafica 3D e il fatto di essere uno sparatutto violentissimo.


Se ne potrebbero citare molti altri, ma il videogioco che è stato più accusato di violenza è sicuramente Grand Theft Auto: le unicità del gameplay di questo immersive sim hanno fatto venire dei dubbi a riguardo anche ai più indulgenti.


Comunque, nel corso del tempo le opinioni riguardanti la game violence sono state tante e contrastanti. Solo l’anno scorso, con l’ultimo studio riportato dalla Royal Society Open Science, sembra essere arrivati ad una visione comune.


Sicuramente se trattiamo di violenza va considerato il fattore tempo: gli studi psicologici sono concordi nel ritenere che ogni attività ludica che si protrae per un certo periodo di tempo ha degli effetti su alcune regioni cerebrali, e questi effetti variano a seconda del tipo di gioco. In generale, però, il gioco permette di immagazzinare prima le informazioni senza compromettere la rapidità di pensiero. E oltretutto, con i videogames d’azione il giocatore acquisisce, dopo alcuni mesi di gioco, migliori performance visive.


Poi c’è da tenere conto del contesto: è molto probabile che se la violenza è l’unica forma di socializzazione che il giocatore sperimenta, la violenza diventa un modello per il giocatore stesso. L'ambiente che circonda il giocatore è ciò che lo influenza maggiormente. Vero è che l’engagement del videogioco ha anch’esso un ruolo non indifferente: è scopo del creatore infatti ideare un videogioco che catturi l’attenzione del giocatore, portandolo a fargli vivere un’esperienza di gioco avvincente al punto tale da non stancarlo.

 

Piuttosto, competitività e violenza possono favorire comportamenti aggressivi se connessi a situazioni personali pregresse. Ed è l'insieme di queste situazioni, semmai, che può portare una persona a compiere gesti folli.

 

Anche sulla base di questi fattori, nel 2005 l’American Psychological Association (APA) aveva pubblicato una relazione - peraltro ribadita dieci anni dopo - in cui sosteneva che ci fosse una relazione tra l’uso dei videogiochi violenti e l’aumento di aggressività nel giocatore, oltre che una diminuzione di empatia e di comportamenti socialmente desiderabili.


Una posizione simile a quella dell’APA è stata condivisa da stimati psicologi, i quali hanno esaminato gli effetti dell’esperienza di gioco in connessione a comportamenti aggressivi, giungendo alla conclusione per cui la competitività nei giochi violenti comporta un aumento di ciò che in gergo tecnico viene definito arousal, ossia l’insieme dei pensieri o comportamenti aggressivi.


Come anticipavo prima, però, oggi prevalgono tutte quelle teorie sostenitrici del fatto che non ci sia una correlazione tra l’uso di videogiochi e comportamenti violenti. La risoluzione dell’APA, che è una delle fonti più autorevoli, ha dimostrato ben presto di far acqua da tutte le parti: prima di tutto perché non sono mai state presentate delle statistiche che dimostrassero la correlazione. Anzi, la teoria sviluppata dall' APA si è basata solo su studi di laboratorio.


Altri studiosi, invece, hanno basato il loro ragionamento su argomentazioni più complesse: secondo alcuni, infatti, le caratteristiche principali dei videogiochi - violenza, competitività, difficoltà e ritmo d’azione - influenzano le emozioni del giocatore inducendolo a provare eccitazione, frustrazione e anche pensieri aggressivi. Ma ciò non avviene per i giocatori nella loro totalità, “solo” per coloro che ne sono suscettibili, dal momento che gli stimoli come la competitività o la violenza vengono elaborati dalla nostra mente e producono in ognuno di noi effetti diversi.


In conclusione, additare i videogiochi come i principali responsabili di violenza è sbagliato e tende a semplificare un discorso molto più ampio e complesso: i ragazzi che vivono in un contesto privo di violenza e frustrazione non diventano dei criminali semplicemente giocando a Grand Theft Auto.


Infatti, il gioco si limita ad essere una forma di socializzazione, a cui però non può essere riconosciuta una valenza positiva o negativa.


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