- Luca Carlesso
Scalabilità nei Videogiochi - o come meno spesso è meglio
Aggiornamento: 1 mag 2021

Storicamente quando viene sviluppato un sequel di un gioco quello che ne viene fuori è lo stesso gioco di prima “con più cose”. Una mappa più grande, più elementi di personalizzazione, più opzioni di combattimento, una campagna più lunga, e sono sicuro che ve ne vengono in mente molti altri. In gergo tecnico scalano, e la scalabilità è quanto spazio di design abbiamo per implementare nuove features o contenuti.

Questo succede spesso nell’industria, specialmente nelle grandi case produttrici, perché assicura le vendite. Se il gioco precedente è andato bene, e propongo più contenuto dello stesso tipo al mio pubblico, i risultati sono quasi assicurati, almeno dal punto di vista di incasso. E non c’è nulla di male in questo, io ho comprato tutti i Mario Kart dal GCN in poi proprio perché è sempre uguale a se stesso, ma con nuovi tracciati.
Ma questa è una strategia pericolosa, che se perpetrata per troppo tempo rischia di fare più male che bene a livello di user experience. Visto che è difficile parlare di un tema astratto e ramificato come questo senza una base, prendiamo ad esempio un gioco che conoscete tutti e che non devo starvi a raccontare: Assassin’s Creed.
Ogni volta abbiamo avuto a che fare con una mappa sempre più grande, che però è in verità molto più piccola di quello che sembra.
Assassin’s Creed arriva sul mercato nel 2007 col suo primo capitolo. Si presentava da subito come un gioco in cui l’approccio furtivo e l’investigazione erano padroni, condito da una trama intrigante e per i tempi originale. E con i capitoli successivi Ubisoft ha aggiunto nuovi contenuti e feature rendendo il gioco molto più completo, popolandolo di sidequest e attività secondarie.
Ma non è un comportamento sostenibile all’infinito, anche perché non è possibile mantenere la stessa qualità o originalità per tutti gli elementi, che oltre una certa quantità dovranno per forza ripetersi. Questo è più evidente nella nuova generazione di Assassin’s Creed (da Origins in poi), dove un sistema di livelli ed esperienza ti obbliga a completare le

missioni secondarie per poter entrare in determinate zone, senza farsi completamente obliterate dai nemici quantomeno. E questo si traduce nella necessità di di ripetere le stesse azioni di continuo, come pedinare sospetti o analizzare oggetti illuminati dai sensi di ragno, attività che poi presentano poca variabilità.
Per la mappa è la stessa cosa. Ogni volta abbiamo avuto a che fare con una mappa sempre più grande, che però è in verità molto più piccola di quello che sembra. Vi ricordate la mappa sconfinata e completamente esplorabile, casa per casa addirittura, di Assassin’s Creed: Unity? Per quanto fosse dettagliata e bella da vedere, l’azione e la storia erano concentrati su una parte molto piccola della mappa. Quindi anche se avevamo effettivamente la possibilità di entrare nella cucina di ogni parigino, non c’era alcun valido motivo per farlo se non per il gusto dell’esplorazione, ma al dodicesimo appartamento la voglia ti passa comunque.
Sempre negli Assassin’s Creed di nuova generazione abbiamo quasi lo stesso problema. La mappa è sconfinata, ma limitata dal livello del giocatore, che quindi ha molta meno scelta di quel che sembra.
Quanti giochi sono usciti con degli avamposti da liberare? Torri di comunicazione da sabotare? Animali in gabbia che seminano il caos se liberati, assalto a dei convogli, pedinamenti, scorta di NPC? In un mondo open-world magari.
E quando hai troppe distrazioni come queste quello che ci rimette è la narrazione, che non riesce a seguire un ritmo preciso che giochi lineari come Uncharted permettono, e di conseguenza diventa difficile da seguire per il giocatore. Uno dei grandi punti di forza di Assassin’s Creed è proprio la storia, sia come ambientazione che come narrazione, che però viene continuamente azzoppata dagli sviluppatori riempiendola di intermezzi di poco valore. Decidetevi insomma, o la capra, o i cavoli.
Uno dei problemi con questo tipo di approccio è che non tutti i tipi di giochi hanno una scalabilità infinita. Il genere che si presta di più è il Sandbox Open-World, di cui la saga di Far Cry è uno degli esempi più rappresentativi. Infatti è verso gameplay di quel tipo che si vira quando si vuole “scalare” oltre una certa soglia, a un certo punto il gioco si trasforma. Quanti giochi sono usciti con degli avamposti da liberare? Torri di comunicazione da sabotare? Animali in gabbia che seminano il caos se liberati, assalto a dei convogli, pedinamenti, scorta di NPC? In un mondo open-world magari.
Ma mantenere alta l’attenzione e l’entusiasmo per tutto quel tempo è difficile, motivo per cui il mercato Indie ha avuto una spinta così forte negli ultimi anni.
Guardiamo ad esempio Batman: Arkham, che è partito dalle stanze claustrofobiche del manicomio con un avanzamento tipo metroidvania, ma che con la volontà di scalare è diventato un “Sandbox Open-World alla Far Cry” con avamposti, missioni secondarie spesso simili, pedinamenti, ecc, e abbiamo perso quello che rendeva unico il primo capitolo. Stesso discorso con Assassin’s Creed, dove in Origins e successivi ci si ritrova un gameplay che tutto sommato abbiamo già visto dappertutto.

Ma non è tutta colpa degli sviluppatori, parte del problema è l’utenza. Per anni la caratteristica più importante dei giochi sono state le ore di gioco, che però non necessariamente equivalgono ad un’esperienza gratificante. Preferiamo un’esperienza breve e significativa, o lunga e mediocre? Ormai ci sono delle aspettative dietro a un gioco da 60 o 70 euro, tra cui che ti possa tenere impegnato per almeno un mese di gioco, se non di più, soprattutto dal lato console.

Ma mantenere alta l’attenzione e l’entusiasmo per tutto quel tempo è difficile, motivo per cui il mercato Indie ha avuto una spinta così forte negli ultimi anni. What Remains of Edith Finch, Rime, Gone Home, sono tutti giochi molto più contenuti, ma che sembrano abbiano da dire molto di più. Ovviamente hanno anche un costo molto diverso dal tipico tripla A.
E non voglio dire che giochi con mappe enormi e tante missioni secondarie e sistemi marginali sono il male, Breath of the Wild insegna, ma che in futuro vorrei vedere dare più importanza alla qualità dell’esperienza, piuttosto che alla sua lunghezza.