- Axel Novelli
La sindrome della Missione 51 - E se non fossimo stati preparati a comprendere il finale?
Aggiornamento: 9 mag 2021

Metal Gear.
Che ci abbiate giocato o no, tutti sanno quanto sia stato importante nel definire un genere e rivoluzionare il mondo dei videogiochi con - quasi - ogni pubblicazione. Quasi trent’anni e dieci capitoli dopo (se consideriamo solo quelli canonici), nel 2015, la serie creata da Hideo Kojima giungeva al termine con il capitolo più ambizioso di tutta la serie: Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. Tuttavia, per quanto il vastissimo e potenzialmente inimitabile gameplay sia stato apprezzato dai fan più accaniti e dai giocatori meno avvezzi al genere, non è per i suoi pregi che viene ricordato.
Ma per la sua storia.
È difficile definire quale sia il comparto più interessante di Metal Gear. Narrazione e gameplay riescono a unirsi in un mix unico che procede senza forzature, se non stilistiche e che non mancano mai nella visione dell’autore. Certo, Kojima ha dimostrato di avere una grande passione per il cinema quando ci ha tenuti incollati allo schermo per quasi tre ore durante l’ultimo filmato di Metal gear Solid 4: guns of the Patriots.
Ma, per l’appunto, eravamo incollati.
Così incollati e immersi nella catarsi dell’eterna lotta tra i due gemelli protagonisti che, quando The Phantom Pain venne annunciato (sotto apparenti mentite spoglie) stentavamo a crederci. E increduli siamo rimasti quando, da lì alla pubblicazione del capitolo conclusivo della saga, scoprimmo che il sodalizio tra Kojima e Konami giungeva al termine in uno dei più chiacchierati divorzi del settore.
Ma la travagliata storia di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain non finisce qui e, dopo un lancio sul mercato quasi un anno dopo il rilascio del prologo, il gioco approda su tutte le piattaforme con quello che a detta di tutti è un grossissimo e fondamentale pezzo mancante: il finale.
“Non dobbiamo pensare al comparto narrativo come la differenza tra le azioni del giocatore e quello che abbiamo scritto”
Ma se invece il finale ci fosse e i giocatori non l’avessero capito?
Sono sempre stato maggiormente attratto da titoli con una storia interessante da raccontare, indipendentemente dalla sua complessità. Il potere che ha questo media di facilitare l’immedesimazione all’interno di un personaggio è incomparabile alle altre forme di narrazione. Quando scritta bene e supportata da un forte coinvolgimento diretto del giocatore, anche solamente dal punto di vista meccanico e non decisionale, una storia può scatenare importanti emozioni arricchendo infinitamente l’esperienza di gioco.
Tuttavia, una buona storia non basta a rendere divertente un gioco le cui meccaniche sono terribilmente noiose e, per questo, spesso diventano più memorabili piccole situazioni piuttosto che quello che ci resta di una lunga storia come The Last of Us.
Ma come si rende interessante un gioco con una trama lineare su cui il giocatore non ha potere?
Semplice! È sufficiente tenere sempre a mente che, pur essendo il comparto narrativo importante per il nostro titolo, è sempre e comunque il giocatore ad essere protagonista, anche quando controlla un personaggio molto diverso da lui. Un esempio perfetto di fusione tra ciò che il gioco vuole raccontare e ciò che al giocatore è permesso di fare è Spec Ops: The Line.

“Non dobbiamo pensare al comparto narrativo come la differenza tra le azioni del giocatore e quello che abbiamo scritto” - Walt Williams, scrittore del gioco.
In Spec Ops: The Line, tutto ciò che il giocatore può fare è sparare... o non sparare. La storia raggiunge la sua catarsi in questa differenza al culmine di una delle più belle vicende mai raccontate con un videogioco.
In Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, siamo chiamati a vestire i panni - letteralmente, come si scopre nel “finale” - dell’eroe protagonista dell’intera saga: Snake. Ci viene affidata una missione su cui non ci interroghiamo nemmeno per un istante e spesso, da giocatori, vediamo il nostro alter ego prendere decisioni che non comprendiamo fino in fondo finché, nel “finale”, ci vengono spiegate.
La verità è che la maggior parte del pubblico non è preparata ai finali aperti e alla loro analisi interpretativa che, spesso, si rivela essere poco più di una personale interpretazione.
Più nel dettaglio:
Il coinvolgimento del giocatore in The Phantom Pain viene portato all’estremo quando, nel filmato finale, ci viene rivelato che il personaggio su cui abbiamo avuto controllo fin dall’inizio non è il vero Snake, ma che stiamo indossando il suo volto ed eseguendo ciò che lui, tramite lavaggio del cervello, ci ha chiesto di fare.
Tutto questo mentre il vero Snake è in missione segreta chissà dove o alle Bahamas a bere Margarita. In realtà sappiamo dov’è, perché ci viene spiegato nel capitolo precedente.
Per tutta la vicenda, assistiamo a uno Snake taciturno, che si comporta in modo pressoché automatico, come se il suo cervello fosse stato preimpostato a compiere il dovere di soldato. Nelle situazioni esterne al campo di battaglia, invece, il nostro Snake sembra un alieno: taciturno, stranamente distaccato e apparentemente finto.
Quelli che sembrano tagli di budget nel doppiaggio, in realtà, sono il tentativo di nascondere al giocatore la verità e stuzzicarlo, cercando di spingerlo a porsi le giuste domande a cui, però, l’autore cela abilmente le risposte. Tutto questo è reso possibile solamente grazie al gameplay che porta il giocatore a un livello di engagement così profondo da perdere di vista i segnali che l’autore semina ovunque e utilizzando ogni mezzo: file audio, collezionabili, dialoghi, filmati ecc...
Il tentativo di Kojima è quello di portare l’emergent storytelling, caratteristica unica di questo media, all’apice della sua espressività. Ecco perché il sottofondo narrativo apparentemente blando e poco fitto tipico degli altri titoli della saga, in questo capitolo sembra spezzettato, inconsistente e difficilmente collegabile agli altri episodi.
Invece, il “missing link” di cui si è tanto discusso e che questo prequel sembra non essere in grado di fornire, viene lasciato nelle mani dei giocatori che non si rendono conto di essere loro stessi il tassello mancante nel cerchio che li vedrebbe a capo dei nemici del primo titolo dell’intera saga.
The Phantom Pain non è un gioco incompleto, ma una storia molto difficile da comprendere e che richiede un’analisi attenta. Entrambe cose a cui l’autore ci avrebbe dovuto abituare, ma che come il suo più recente Death Stranding ha spaccato critica e pubblico rivelandone l’impreparazione.
La verità è che la maggior parte del pubblico non è preparata ai finali aperti e alla loro analisi interpretativa che, spesso, si rivela essere poco più di una personale interpretazione. Titoli come il recentissimo The last of us 2 hanno dimostrato la difficoltà dell’utenza a digerire tematiche e concetti complessi raccontati in modo sperimentale.
Forse, grazie a nuovi approcci alla narrazione come Bloodborne e i “Souls” ci abitueremo a indagare con più interesse una storia che non basta vivere e che non ci viene spiegata unilateralmente. Ma resta il dubbio:
Dopotutto, ogni storia è lo spaccato di vita di un personaggio e i finali sono sempre aperti. Esistono solamente finali più o meno complessi da capire.
E, infine, esistono i vecchi titoli Pokémon per Game Boy, che un vero finale non ce l’hanno ma è il giocatore a stabilire quando e dove salvare l’ultima partita.