- Axel Novelli
L’hollywood dei videogiochi - di adattamenti brutti e altri esperimenti
Nel 2002, qualcuno decide di portare al cinema Resident Evil. Le premesse sono ottime: zombie, atmosfera horror, una bella attrice protagonista e un’organizzazione terroristica.
Il film funziona e diventa una saga cinematografica di lontanissima ispirazione al gioco, a suo modo funzionante ma che non convince chi è cresciuto a pane e erbe miscelate (non pensate male!).
Eppure se al posto della Jovovich mettiamo Will Smith al top della forma e sostituiamo l’organizzazione terroristica con una casa farmaceutica otteniamo un film che ha funzionato molto di più e che è diventato… leggenda!
Il motivo? Sta nel titolo.
Bastano le parole “Tomb Raider” a trascinare un intero popolo di sognatori al cinema a vedere Angelina Jolie in tuta aderente allenarsi contro un proto-Bumblebee, convinti che non usciranno dal cinema senza qualche riserva.
E sto ancora parlando dei film usciti discretamente…

Il problema degli adattamenti sta nell’esperienza originale, non nell’opera: chiunque abbia letto il libro da cui è tratto un film, una volta uscito dalla sala, ha ammesso di aver preferito la lettura.
E non è perché Peter Jackson non sia stato in grado di dare un volto ai personaggi e alle creature della Terra di Mezzo o perché Albus Silente non rispecchi la visione originale dell’autrice, ma perché ognuno di noi, leggendo un libro, vive un’esperienza personale diversa e unica.
Lo stesso accade con i videogiochi: sono tante le produzioni cinematografiche tratte, basate e ispirate ai videogiochi che non ce l’hanno fatta, e il motivo sta nell’esperienza che offre l’interazione, di cui abbiamo parlato in questo articolo.
Uwe Boll, tra i registi più odiati di sempre, non ha mai capito il principio dell’interactive storytelling, ed è per questo che è finito a fare a pugni con i critici per difendere l’onore dei suoi film, quasi tutti ispirati a videogiochi, quasi tutti accusati di aver persino rovinato i titoli da cui hanno tratto ispirazione!
Che esagerazione.
Parlo delle accuse, non dell’incontro di boxe in cui era stato sfidato persino Michael Bay.
Due modalità diverse di vivere la storia
Quando andiamo al cinema o leggiamo un libro, assistiamo da spettatori inermi al susseguirsi di eventi riguardanti uno o più personaggi, fino alla fine dello spaccato della loro vita che il regista e lo sceneggiatore hanno deciso di raccontarci.
Il nostro ruolo, al cinema, è quello dello spettatore che, con lo svolgersi della trama, si immedesima nel protagonista e negli altri personaggi sviluppando un punto di vista e un’opinione su quanto viene messo in scena, mentre elabora e interpreta ciò che gli autori hanno tentato di trasmettere con la pellicola.
Ogni scelta compiuta dai personaggi e ogni evento a cui sono esposti è stato già scritto e a seconda del genere di film che stiamo guardando saremo chiamati a indagare insieme al detective, a provare le stesse paure, a sperare che un personaggio riesca a superare i suoi ostacoli o desiderare che venga punito per le sue azioni.
Eppure, non parteciperemo mai all’azione. Non saremo mai diretti responsabili della vita dell’ostaggio e non combatteremo Thanos armati di martello.

Nei videogiochi, l’esperienza che viviamo è completamente diversa e mette in secondo piano gli eventi e la struttura narrativa (almeno nella maggior parte dei casi) per favorire l’immersione del giocatore.
Quando giochiamo, l’immedesimazione è portata all’apice della sua forza, perché abbiamo controllo su parte del mondo di gioco (generalmente sul personaggio) e di conseguenza siamo responsabili delle sue azioni e del suo successo. In alcuni giochi abbiamo persino controllo sul destino di altri personaggi e del mondo, che riflette le conseguenze delle nostre scelte, piccole o grandi che siano.
Tendiamo ad immergersi non soltanto quando dobbiamo creare il nostro avatar all’inizio della partita, ma anche quando il personaggio che interpretiamo è molto diverso da noi e ha un nome e cognome, come Lara Croft.
La Lara di Angelina Jolie, è il frutto del lavoro di un’attrice, un’equipe di costumisti, truccatori, artisti, del regista, dello sceneggiatore e della produzione, che per mesi o anni ha lavorato dando forma a un personaggio che fino a quel momento era stato, per ognuno di noi, un ammasso di pixel e forme geometriche spigolose riempito dalla nostra fantasia e… desiderio.
Ma per quanto la Lara della Jolie abbia funzionato e fosse molto fedele a quella del gioco, non era la NOSTRA Lara. La Lara di ognuno di noi rispondeva ai nostri comandi (o non rispondeva, visto che per saltare e aggrapparsi serviva una mano in più) e, in qualche modo, parlava con la nostra voce.

La nostra Lara è un’icona rappresentativa del nostro ruolo all’interno di un immaginario ben definito, mentre quella della Jolie è una vera e propria eroina che, pur rifacendosi alla backstory originale e al suo carattere in modo meticoloso, mancava dell’immedesimazione che solamente la sua controparte pixelata poteva darci.
L’unicità dei videogiochi
Ci sono però anche degli altri fattori che contribuiscono a rendere unica la narrazione di un videogioco e che rendono molto difficile riuscire a ricalcarne lo stile sul grande schermo. Prendiamo per esempio Max Payne, che dopo vent’anni rimane ancora una pietra miliare del modo di raccontare e ha consolidato per sempre lo stile del suo autore, Sam Lake.
Max Payne è la definizione perfetta di “sopra le righe”, di “pulp”. Riesce a rappresentare alla perfezione l’immaginario noir americano e ne fa un omaggio di grande intelligenza che, oltre a dimostrare per l’ennesima volta che in Europa facciamo le cose meglio che in America, mette in luce l’unicità del media: l’esagerazione e la comicità di Max Payne funzionerebbero solamente in un videogioco. E infatti l’adattamento cinematografico è insipido e prova a richiamare, almeno in una sequenza, la follia del gioco, creando una scena che è imbarazzante quanto Meet the spartans quando scimmiotta GTA: San Andreas.

Esistono anche casi imbarazzanti, come il film di Super Mario uscito negli anni ‘80, la cui ombra non lascia ben sperare nemmeno per il film sull’idraulico attualmente in produzione, che di fatto non ha assolutamente bisogno di un film ma che spero possa stupirci e divertire i più piccoli.
E poi ci sono perle di cui si parla troppo poco, come il film Final Fantasy del 2001, la cui CGI è invecchiata malissimo, ma che all’epoca era riuscito a lasciarmi a bocca aperta.
L’approccio contrario
Non è certo un segreto, però, che il mondo dei videogiochi rappresenti un magnete interessantissimo e che lascia spazio a innumerevoli possibilità di sperimentazione per la produzione di film d’azione e potenziali blockbuster.
Basti pensare a Ralph Spaccatutto, che “spacca tutto” catapultando lo spettatore in un mondo pieno di easter egg e stereotipi gestiti con l’ordinaria maestria della Disney, ambientando la storia nel mondo dei videogiochi e cavalcando tutte le sue tematiche, citando titoli e colossi anche molto importanti, ma senza prendersi il rischio di adattare un’opera originale pensata per essere vissuta in prima persona.
Un caso simile riguarda Ready Player One, showreel di effetti speciali e citazioni per passare una serata sorridendo e mangiando pop corn.
Il futuro
Tra i videogiochi di maggior successo degli ultimi anni, Naughty Dog sta facendo scuola su tutti gli aspetti, dal comparto tecnico alla fluidità di gioco, fino e soprattutto alla profondità e “cinematograficità” delle storie che racconta.
Non è un caso che The Last Of Us, prima di Uncharted, abbia attirato l’attenzione dell’industria cinematografica che spera di trasformare entrambi i titoli in blockbuster macchine di soldi. E non è un caso che entrambi i progetti siano stati travagliati: il film su The Last Of Us è stato cancellato perché la produzione sperava di trasformarlo in qualcosa “di più grande”, spettacolarmente parlando, e Uncharted ha perso diversi registi oltre ad aver lasciato perplesso l’attore protagonista nel corso della produzione.
Ora che The Last Of Us diventerà una serie tv, ci si deve chiedere se abbia davvero senso portare al cinema un videogioco.
Per me, la risposta è “dipende”.
Dipende da quanto lineare è la storia di un gioco e dipende da cosa si intenda raccontare attraverso di esso. Penso a esperimenti come Alan Wake, Control o Quantum Break, tutti prodotti Remedy che hanno rivoluzionato il modo di fare storytelling interattivo e non posso fare a meno di chiedermi se, nonostante l’importanza della sceneggiatura in titoli come questi, Metal Gear Solid (prossimo a entrare in produzione cinematografica) o Hitman possano davvero lasciare qualcosa di importante nello spettatore.
Personalmente, mi sono emozionato tantissimo quando ho visto il film di Ratchet & Clank, ma perché l’effetto nostalgia è un’arma più potente del RYNO della Gadgetron e sono curiosissimo di vedere il film su Mortal Kombat.
Il fatto che qualcosa “non funzioni” non significa che non si debba tentare di investire nel tentare di nuovo, in modo diverso.
Questo ragionamento sta uccidendo l’industria cinematografica che oggi non si concentra più sul creare bei film, ma sull’impacchettare prodotti perfettamente pensati per un determinato pubblico, con il risultato che sempre più spesso si sente parlare di “andare al cinema senza pretese”. Ma non solo, anche l’industria dei videogiochi è in pericolo, perché nonostante l’immensità di giochi come Red Dead Redemption 2, persino Rockstar sta valutando l’opzione di lasciarsi alle spalle a tempo indeterminato l’ambientazione western per diventare una fabbrica di GTA.
E, sempre questo ragionamento, ha ucciso il progetto del film su Call Of Duty in cui era coinvolto Sollima.
C’è speranza che si possa far bene. Servono i nomi giusti e l’atteggiamento giusto da parte della produzione. Ma soprattutto, serve la stessa fiducia che HBO ha avuto nei confronti di Lindelof quando ha proposto la sua visione per il seguito di Watchmen.
E bisogna comprare più indie.